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Editoriale del numero 0 - «Bankers rhymes with wankers» («Banchieri fa rima con mezze seghe»), dalla City di Londra un nuovo grido racconta le rivolte anti-crisi. Un'epoca di crisi, la nostra, un'epoca di rivolte, di rabbia: cadono le vetrine delle banche, mentre manager o dirigenti d'impresa vengono assediati, ritenuti responsabili di una catastrofe economica senza precedenti. Il dogma infallibile del mercato ha fallito, il neoliberismo salta in aria mentre procede la nazionalizzazione delle banche e delle perdite e il debito pubblico ricomincia a salire. Misure-tampone, provvisorie, prive di speranza: nessuno riesce a prevedere quanto la crisi durerà, quanto tempo ci vorrà per riattivare la domanda e far ripartire l'occupazione. Intanto cresce la paura, il timore di perdere tutto, lavoro, sicurezza, futuro; e c'è chi questa paura vuole farla divampare, chi la trasforma in una arma spietata, razzista e xenofoba. La paura si sa non aiuta mai l'azione politica e la libertà, semmai produce nuove schiavitù, nuova ingiustizia.
Eppure questo mondo che cambia è una grande opportunità. Le bussole di un tempo non funzionano più, per nessuno. La politica è in crisi, una crisi più dura e più profonda di quella economica. Crisi della rappresentanza e fine della sinistra, due processi che si sono dispiegati negli ultimi mesi, potenti e inesorabili; un fiume in piena che si è immesso nel maremoto della recessione. D'altronde quale spazio oggi per il riformismo di sempre? Quando Obama “nazionalizza” una banca qualcuno pensa al socialismo e il Corriere della sera grida allo scandalo, ma la scena è assai più complessa: si chiede alla politica di fare in fretta, sanare i buchi, spremere i contribuenti, assistere il malato (l'economia) quel tanto che basta per farlo respirare, senza dare troppo disturbo. Non c'è un nuovo Keynes dietro l'angolo, non sarà Obama da solo a fare il New Deal del nuovo secolo! Ogni patto (deal) ha bisogno di lotte e di rotture, di alleanze e di conquiste: dietro un patto non c'è solo la crisi, c'è la forza di chi la crisi non vuole pagarla.
Finita la sinistra sembrava che l'Italia dovesse finire di ronde e di razzismo. Non che di ronde non ce ne siano state in questi mesi! Ronde padane o meridionali, periferie violente, violenza di poveri contro poveri, di poveri contro più poveri. I corpi delle donne e quelli dei migranti al centro di questa a scena, a Roma come altrove. Eppure non c'è stato solo il peso insopportabile della sicurezza: in Italia, in Grecia, in Francia, in Spagna, centinaia di migliaia di studenti hanno riconquistato il loro tempo e il loro spazio ed hanno aperto una sfida che urla come lo slogan “Noi la crisi non la paghiamo!”. La crisi della rappresentanza si è fatta irrappresentabilità dei movimenti: movimenti profondamente politici, per natura, desideri, linguaggio, forza. Altro che fine della politica! Una nuova politica tutta da inventare, segnata non solo dalla crisi delle forme tradizionali della rappresentanza, ma soprattutto dalla crisi economica, dalla fine dell'euforia neoliberista.
Una nuova fase in generale per i movimenti: indipendenza e capacità costituenti ne definiscono la misura, la qualità, la prospettiva. Cosa significa oggi esistere per i movimenti se non farlo nell'indipendenza (politica, culturale, economica)? Cosa significa fare conflitto se non misurarsi immediatamente con nuove forme di autogoverno? La forza dei movimenti non è più disgiungibile dalla capacità di questi ultimi di costruire istituzioni di nuova natura, istituzioni in grado di organizzare la potenza comune del lavoro, della comunicazione, dei diritti, delle risorse. Non c'è più spazio per il riformismo di sempre, c'è invece bisogno di movimenti costituenti che sappiano continuamente mettere in tensione il potere costituito e le attività di governo. L'esempio dell'America latina ci è utile, ma sono tante le esperienze che ci riguardano da vicino, dal progetto di autoriforma dell'Onda, alle battaglie sul diritto all'abitare e sui beni comuni. Conflitto e istanze di autogoverno, due facce della stessa medaglia.
Cosa c'entra in tutto questo la città di Roma? Non basta dire che Roma è baricentro appassionato e vivace dei movimenti di cui siamo parte e che costituiscono la nostra esperienza. C'è qualcosa di più. Roma è diventata (o sta diventando) una metropoli e nelle metropoli il mondo si concentra senza posa: nello stesso tempo luoghi privilegiati della produzione economica, tra mobilità, saperi, finanza e mattone; nello stesso tempo laboratori di sperimentazione istituzionale, laddove, in politica, le misure amministrative si sostituiscono sempre di più alle norme giuridiche, per importanza, peso ed efficacia. E dentro questo mutazione, questa trasformazione rocambolesca e senza paracadute della città in metropoli, Roma è diventata «modello» nazionale. Tra i novanta e il nuovo millennio, da Rutelli a Veltroni, non si è mai smesso di parlare di innovazione politica e culturale: aumento vertiginoso del Pil e “partecipazione”, cemento e cinema internazionale, finanza e solidarietà, tutto tenuto insieme dalla logica infallibile del «ma anche». Eppure la logica che sembrava infallibile è crollata in un attimo, a prevalere la divisione di culture e di interessi, di valori e di bisogni. Il modello universalistico (nelle ambizioni) e “gentile” non è riuscito a nascondere rabbia e solitudine, povertà e passioni tristi. Dalle periferie al lavoro precario, la fiducia si è rotta e non sempre, da questa rottura, ne è uscito fuori un nuovo desiderio di democrazia. Dicevamo delle ronde, ma le ronde non bastano a raccontare la fragilità sociale che ha assunto ed assume le sembianze del risentimento. Alemanno, oltre ad essere una nuova “macchina politica”, è espressione di questa paura e di questa solitudine, di entrambe fa risorse decisive per la sua avventura di cambiamento: anoressia sociale e populismo, al bando il cinema evviva la sicurezza.
Eppure Roma è una città «degna», nonostante la débầcle del veltronismo e delle sue vetrine, nonostante la durezza di Alemanno e i suoi protocolli. Chi scrive vive nella ricerca continua di questa dignità, mai scontata, sempre da costruire. Esplicitiamolo da subito, chi scrive non ha alcuna intenzione di raccontare la “linea giusta”, non fosse altro perché tante e diverse sono le posizioni che attraversano questo editoriale e gli articoli che seguono. Nella ricerca della dignità ci sembra difficile chiudere il cerchio, piuttosto riteniamo sia necessario ricostruire un discorso pubblico, ricco di differenze e se necessario di polemica, combattivo ed acuminato, creativo e conseguente. Nuovi esperimenti di rappresentanza sociale e indipendenza, municipalismo e autonomia dei movimenti, conflitti e nuovi dispositivi istituzionali, istanze non rappresentative di autogoverno e contrattazione sociale: un lessico ancora da costruire, a Roma, tra diversi, nella consapevolezza che nessuno è autosufficiente. Questa è la sfida della Dinamo, una sfida metropolitana, politica ed editoriale, un'occasione. Un'occasione che vale per chi scrive oggi, nel numero 0, ma anche per chi vorrà farlo in futuro. Dinamo è l'occasione di questo discorso e di molti altri discorsi che non hanno voglia di rimanere fermi, ma che sanno che solo il movimento produce movimento (e costruisce alternative concrete, qui e ora), solo la velocità illumina la strada, solo camminando si costruisce il cammino.